Equo appunti per la formazione

E se finisse il cotone?

Da un articolo di Marinella Correggia su Il Manifesto del 25 settembre 2010

Allarme cotone. Tre dei quattro maggiori produttori mondiali – Cina, Usa, India e Pakistan forniscono il 70% del totale – sono funestati da rovesci climatici. Molti campi in Pakistan sono azzerati dalle alluvioni. La Cina (che è anche la principale consumatrice mondiale in quanto «fabbrica del mondo») è colpita dalla siccità. Quanto all’India (la principale esportatrice mondiale), il suo cotone è minacciato da una stagione monsonica insolitamente lunga; del resto il paese già in passato ha annunciato una riduzione delle esportazioni per evitare carenze di materia prima all’interno. A queste circostanze si aggiunge l‘aumento del consumo di fibre tessili: una combinazione di fattori ambientali ed economici sta portando a una certa penuria internazionale di questa fibra data per scontata.
Se ne è parlato perfino alla Fiera della moda a Londra ed è un fatto nuovo perché gli stilisti non si sono mai interessati granché dei campi e dei lavoratori che coltivano le fibre da essi utilizzate. Né si sono mai preoccupati della concorrenza slealissima che il pubblicamente sovvenzionato cotone statunitense esercita nei confronti dei cotonicoltori africani, privi di qualunque aiuto pubblico.
Lo spettro della scarsità dovrebbe far riflettere. Forse è finita l’epoca dell’abbigliamento usa e getta, economico – quando non si aggiunge la «cresta» della firma – e subito rottamato per i continui cambiamenti di forma e colore dettati dalla «moda».
Gli abiti sono a buon mercato sia per le scarse paghe dei lavoratori tessili del Sud del mondo, sia per il basso prezzo della materia primache nasconde elevati costi ambientali e sociali. Il cotone ha in effetti virtù e difetti. È chiamato da un economista francese «il maiale della botanica», nel senso che della pianta si usa tutto, anche i semi per farne olio. Se coltivato in modo appropriato e su scala minore potrebbe essere davvero utile. Ma attualmente è una commodity internazionale a basso prezzo dalla quale spesso milioni di piccoli coltivatori del sud del mondo ricavano solo debiti con i venditori di semi e pesticidi – sono cotonicoltori molti dei contadini indiani che si tolgono la vita. Del resto la coltura richiede un elevato impiego di acqua e sostanze nutritive ed è molto sensibile ai parassiti (dunque è abbondantemente irrorata di pesticidi). In Uzbekistan, poi, è notorio il cotone è tuttora raccolto da lavoro infantile coatto.
Invece, nel cotone biologico ed equo la formazione del prezzo e addirittura l’ideazione delle collezioni parte dalla garanzia di un reddito sufficiente per i produttori e dall’individuazione di modi di coltivare sostenibili. Nel mercato convenzionale è il contrario: si cerca e si trova la fibra più a buon mercato. Una camicia di cotone bioequo di qualità contiene fino a 500 grammi di fibra, rispetto ai soli 50 di una maglietta ordinaria che contiene prodotti di finitura e colori chimici, talvolta così mefitici da essere in grado di inquinare le acque di intere città «tessili». La qualità ecoequa costa (parecchio) di più e dura di più: diversi anni anziché qualche lavaggio. Rimane in gran parte da esplorare anzi da riscoprire il mondo delle fibre tessili vegetali alternative al cotone: il «lino di Nuova Zelanda» (Phormium tenax) che è una pianta perenne – non annuale – e produce una fibra di alta qualità risparmiando acqua, degrado dei suoli e input chimici. E l’eterna canapa.
In ogni caso occorrerà che la moda universale cambi: meno abiti (dunque meno fibre), più durevoli e senza sfruttamento.