altraQnews, Equo appunti per la formazione, News

L’anno della quinoa

Con qualche mese di ritardo (l’inaugurazione era inizialmente prevista a
fine ottobre, poi cancellata a causa dell’uragano Sandy) prende avvio
un anno di iniziative per “celebrare” la quinoa e il suo
contributo alla sicurezza alimentare a livello locale e globale. In onore di questo vcereale millenario anche il bellissimo articolo di Enrico Avitabile di e’pappeci apparso sul manifesto qualche giorno fa. Buona lettura!

Molto tempo indietro, ci fu un disastro naturale; tutta la terra ne fu colpita – campi, boschi, specie animali e vegetali di valore sparirono. La terra rimase desolata, la gente non aveva nulla da mangiare. Gli dei della montagna si riunirono per decidere come porre rimedio ai danni; Cora-Cora, uno degli dei dell’Altopiano, aveva due figlie gemelle che amava molto: i loro nomi erano Sij’a e Chiwi, una era bianca come la neve mentre l’altra era del colore della terra. La Pachamama (Madre Terra) chiese alle gemelle
di offrire le loro anime in sacrificio per eliminare la fame dalla terra, ed esse accettarono. Si trasformarono nel pane della vita.
Il miracolo avvenne in un giardino della dea della fertilità. Spuntarono due belle piante, due gemme dal fogliame verde e amaranto con fiori dai toni rosa e porpora, piene di piccoli grani commestibili. Da allora, gli uomini hanno saziato la loro fame con la quinua. La zona del Salar (Altopiano meridionale della Bolivia), è un concentrato di storie, che ruotano intorno a una parola, e una pianta: quinua. Eraclia Choque ha 61 anni e, dopo aver lavorato in città (La Paz e Santa Cruz) come artigiana per 35 anni e – come dice con orgoglio – «laureato 5 figli», ha deciso di ritornare nella sua comunità di origine di Rio Cabrera (Municipio di San Pedro di Quemes, dipartimento di Potosì) perché «in città non mi sono mai
sentita a mio agio»; ha recuperato la casa del padre morto di recente e coltiva quinua nella sua terra aiutata dai fratelli che sono rimasti nella comunità e dai figli che la raggiungono per le fasi più intense della produzione; a Rio Cabrera la coltivazione di quinua è ripresa da poco e una comunità che stava sparendo (essenzialmente a causa della migrazione verso il vicino Cile) improvvisamente sta riprendendo forma, tanto da far decidere
di implementare in questa zona un progetto di irrigazione che dovrebbe migliorare la fertilità dei suoli. A Colcha K., poco più a est, è sorto un conflitto per le terre (sempre per coltivare quinua) con i membri del vicino villaggio di Santiago; questi ultimi hanno presentato dei titoli legali per vantare diritti su terre tradizionalmente coltivate dalla gente di Colcha K., ma questi ultimi non possono dimostrare un loro diritto sulle terre in
questione; il processo di titolazione legale delle terre in queste zone è estremamente fragile, cosicché i conflitti inter-comunità sono molto più difficili da risolvere dei conflitti infra-comunità; per esempio a Villa Esperanza (Salinas de Garci Mendoza, dall’altra parte del Salar) erano sorti conflitti fra gli stessi membri della comunità, amplificati dal fatto che diversi giovani avevano deciso di rientrare chiedendo anch’essi terreni disponibili: qui la soluzione è stata trovata ricorrendo al sistema del
t’aqa , una pratica tradizionale di redistribuzione delle terre su base equitativa. La quinua oggi è al centro di trasformazioni complesse in quest’area, porta un nuovo benessere, ma è anche all’origine di conflitti per la terra e di nuovi rischi ambientali: strano destino, per una pianta “dimenticata” per millenni e improvvisamente assurta al rango di «miglior alimento del mondo».

Una vicenda millenaria
Coltivata fra Perù e Bolivia sulle sponde del Lago Titicaca già nel 5000 AC, la quinua ( Chenopodium quinoa ) è un grano andino che per millenni ha costituito un elemento basico della dieta per le popolazioni di questi altopiani: grazie alla sua estrema adattabilità può essere coltivata in contesti pedoclimatici molto diversi, comprese aree con estrema scarsità di acqua, e ad altezze che possono raggiungere anche i 4300 metri. Inolte, il
«cerale madre» (in lingua quechua) è un alimento eccezionale dal punto di vista nutrizionale: migliore in proteine, calcio, fosforo e ferro rispetto a tutti gli altri cereali, contiene tutti gli aminoacidi essenziali in misura comparabile al latte, ed è inoltre facilmente conservabile senza andare incontro a processi di deterioramento; le popolazioni preispaniche ne scoprono applicazioni mediche (ad es. per le fratture), ed è facile così che
la quinua diventi per esse ben più di un alimento, ma un pezzo vivo della loro cultura fondendosi in riti religiosi e di ringraziamento.
Eppure, nonostante queste innegabili “virtù”, quella della quinua non sarà una storia di successo: con l’arrivo degli europei cambiano anche i modelli alimentari, altri coltivi prendono il sopravvento (mais, granoturco, riso) per una politica di rigetto della tradizione alimentare dei popoli indigeni perpetuata dai conquistadores spagnoli e anche a ragione del fatto del fatto
che le classi urbane non amavano nutrirsi di un grano che si portava dietro lo stigma di «cibo degli Incas». La quinua viene pian piano quasi dimenticata, un oblio che durerà quasi fino ai giorni nostri. I produttori continuano a consumare la quinua che coltivano, se possibile insieme ad altre componenti della dieta rurale (la patata su tutte), ma sempre più spesso sono costretti a cercare altre forme di reddito anche attraverso una forte emigrazione sia interna che esterna (Cile, Argentina). Poi, a un certo punto, la storia cambia.
La seconda vita della quinua inizia negli anni ’70, quando nell’Altopiano Sud della Bolivia, nei dipartimenti di Potosì e Oruro (da sempre una delle aree di maggiore produzione) arrivano i primi trattori grazie a progetti della cooperazione belga, permettendo ai coltivatori di muoversi dalle laderas (le pendici dei monti) e iniziare la coltivazione in piano, dove il lavoro risulta estremamente meno faticoso; contemporaneamente nascono le
prime associazioni di produttori della zona (Cecaot, Anapqut) con
l’obiettivo di fornire migliori opportunità a gruppi di contadini che anche in Bolivia risultano fra i gruppi sociali maggiormente emerginati. Dall’altra parte del mondo i consumatori (grazie anche a una serie di studi di Fao e Organizzazione mondiale della sanità, ma perfino la Nasa ne studierà le caratteristiche e la considererà come un alimento ideale per le sue missioni spaziali) iniziano a conoscere gli attributi di questo “super-grano” e nel 1983 avviene la prima esportazione verso gli Stati Uniti, mentre nel 1989 iniziano le esportazioni verso l’Europa, inizialmente legate al circuito del fair trade tedesco; infine, negli anni ’90, ancora
nell’Altopiano Sud, iniziano i programmi di passaggio all’agricoltura
organica. In poco più di 30 anni, cambia tutto: la produzione è ancora concentrata essenzialmente in 3 paesi (Bolivia, Perù, Ecuador, con i primi due che assommano a oltre il 90% della produzione mondiale) ma solo in Bolivia la
produzione si quadruplica, passando dalle 10.000 tonnellate del 1970 alle quasi 40.000 del 2011 (dati Faostat); nasce un mercato internazionale prima inesistente e che ora per la Bolivia rappresenta il destino di quasi la metà della produzione; soprattutto (e più recentemente) sono cambiati i prezzi,
triplicati in meno di 10 anni, cosicché oggi per molti produttori la quinua non è più solo «il grano degli dei» ma è plata , ricchezza e possibilità di un nuovo benessere. Opportunità e rischi Evidentemente un cambiamento così forte e rapido va a incidere profondamente sul contesto territoriale sul quale interviene: l’altopiano Sud della Bolivia è l’area più coinvolta
dall’attività di esportazione, in quanto qui cresce la quinua real , la più apprezzata sui mercati occidentali grazie alla maggiore dimensione del suo grano e al suo colore bianco (una volta effettuato il processo di lavaggio). Questa zona costituisce un ecosistema unico al mondo caratterizzato dalla presenza del Salar de Uyuni (il più grande deserto di sale al mondo): l’elevata salinità dei suoli, unita alle altezza (dai 3700 metri in su) e alla scarsità di acqua fanno si che poche coltivazioni possono attecchire
qui, storicamente i produttori hanno sempre coltivato (e consumato) quinua, generalmente insieme a patate e fave (coltivate solamente per
l’autoconsumo), ma queste ultime sempre più lasciano spazio all’estensione di nuove coltivazioni di quinua, ormai nella sua quasi totalità destinata al mercato. Alle associazioni di produttori si sono affiancate nuove imprese private, in genere fortemente legate a specifici mercati di esportazione (i principali sono Stati Uniti e Giappone e – in Europa – Francia, Germania e
Olanda), ma un ruolo fondamentale lo giocano ancora un gran numero di
intermediari informali, che grazie al fatto di possedere un auto o un camion viaggiano fra le comunità raccogliendo la quinua direttamente dai produttori, a volta acquistandola a volte scambiandola direttamente con “beni” (frutta, verdura, abbigliamento) spesso inaccessibili quando il mercato più vicino è a diverse ora di autobus (quando c’è).
Il sistema di produzione è ancora quello dell’agricoltura familiare, ma il nuovo benessere portato dalla quinua ha indotto anche a un movimento demografico ambiguo: da un lato è comparsa la categoria dei cosiddetti residentes , ossia quei produttori che decidono di investire i proventi della quinua trasferendosi in città, e tornando al campo solamente per le fasi critiche della produzione (semina, raccolta) delegando ad altri il lavoro quotidiano; d’altra parte, si assiste anche a un fenomeno di “ritorno” grazie alla nuova prosperità (che, ad esempio, limita la necessità di emigrare), ritorno che coinvolge in alcuni casi anche fasce di
popolazione giovane (e istruita), creando un curioso mix di tradizione e modernità; di certo l’insieme di tutti questi fattori genera una “domanda di terra” che è all’origine di nuovi conflitti, a volte con esito positivo a volte meno.

E ora discutiamo del futuro
Il successo della quinua ha generato una discussione che negli ultimi anni ha addirittura varcato i confini nazionali, guadagnadosi ad esempio articoli sull’ Economist e The Guardian ; i più critici sottolineano in particolare i rischi ambientali, che prendono
la forma soprattutto del processo di erosione del suolo (la fragilità
dell’ecosistema mal sopporta i sistemi di produzione più “moderni” e la diminuzione del periodo di riposo assegnato ai terreni) e di riduzione delle varietà genetiche (si tende a coltivare sempre più le 3/4 varietà più richieste dal mercato), quando solo nell’Altopiano Sud si contano più di un centinaio di ecotipi diversi, ai quali la popolazione locale era in grado di
assegnare anche utilizzi differenti; inoltre viene fatto notare che i prezzi alti rendono la quinua di fatto inaccessibile ai consumatori boliviani (anche se, come già detto, il consumo interno di quinua era limitato anche in epoca di prezzi bassi); i più ottimisti sottolineano invece i progressi (ad esempio il maggiore investimento in servizi educativi e sanitari, così come il miglioramento delle condizioni basiche di vita (alloggio, accesso al
credito, etc.) reso possibile dagli alti prezzi della quinua. E allora, come evitare che un caso di successo si trasformi in un paradosso? La Bolivia di Morales ha fatto negli anni scorsi passi importanti nel processo legislativo: i concetti di sicurezza e sovranità alimentare sono stati incardinati nella nuova Costituzione, e ad essa è seguita una serie di leggi ad hoc, su tutte la Ley 144/11 («Ley de la revolución productiva comunitaria agropecuaria») che inserisce la quinua fra i «prodotti strategici» a livello nazionale; la legge si pone obiettivi ambiziosi in
termini di rafforzamento della base produttiva, sovranità alimentare, difesa delle risorse naturali e della varietà genetica, distribuzione equa dei benefici, eppure in molti lamentano che, all’atto pratico, mancano politiche esplicite capaci di sostenere l’attuale produzione gestendo contemporaneamente i nuovi rischi all’orizzonte. Nelle stesse aree di produzione, le richieste più frequenti di intervento statale riguardano essenzialmente il completamento di alcune infrastrutture (in primis la rete
stradale, ancora in larga parte non asfaltata nella zona) ed un maggior controllo delle dogane (un altro effetto del boom della quinua è stato infatti l’esplosione del contrabbando con il Perù verso cui – secondo alcune stime – “sparisce” quasi la metà della quinua prodotta nella zona del Salar). Ci sono poi una miriade di organizzazioni private (fondazioni, Ong) che lavorano sul tema di una “produzione sostenibile” della quinua nonché di una sua distribuzione più attenta anche alle esigenze locali (ad esempio attraverso programmi di inserimento nei pasti scolastici): è una sfida che riguarda un po’ tutti (produttori, governo, organizzazioni boliviane e internazionali, e non ultimi i consumatori occidentali) perché la seconda vita della quinua possa continuare a lungo.