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Bangladesh: una rivoluzione con ago e filo

Esporta un milione di t-shirt all’anno in Europa, produce per gran parte dei marchi più importanti dell’abbigliamento, impiega nel tessile il 40% dei lavoratori dell’industria eppure ha gli operai peggio pagati dell’Asia. Per i lavoratori tessili del Bangladesh, però, il 2010 è stato un anno importante. Rivolte, scioperi e manifestazioni hanno mobilitato circa 50.000 persone e hanno permesso il raggiungimento di un piccolo obiettivo, purtroppo però infinitesimale rispetto alle loro esigenze: il primo novembre 2010 è entrato in vigore il nuovo salario minimo che passa dall’equivalente di 17 € mensili a 34 €, anche se i lavoratori chiedevano di arrivare fino a 51 €. Come vi si è arrivati, quali sono ancora le condizioni degli operai (in particolare delle donne), come reagiscono alle accuse i grandi marchi della moda internazionale: di questo racconta l’interessante reportage di Le monde Diplomatique che di cui qui vi proponiamo alcuni passi, ma che vi consigliamo di leggere per intero:
Biciclette spericolate, camion carichi di pacchi traballanti, autobus stracolmi di passeggeri, motociclette cavalcate da famiglie intere: di giorno come di notte, l’unica strada che collega Dacca al nord del paese non è mai sgombra. Da ogni lato della carreggiata dissestata, donne e ragazze seguono la Nazionale 3 con la loro andatura regolare e rassegnata che ricorda una processione religiosa. Le file si rompono per sprofondare nei terreni abbandonati in mezzo ai quali sorgono fabbriche di abbigliamento simili a giganteschi formicai. Ogni mattina, tre milioni di persone percorrono la strada delle quattromila fabbriche della cintura industriale della capitale. Oltre tre quarti sono donne: cucitrici, sarte, magazziniere…le operaie del Bangladesh, che costano poco, stuzzicano l’appetito delle grandi ditte occidentali della distribuzione e delle marche della confezione: Wal-Mart, H&M, Tommy Hilfiger, Gap, Levi Strauss, Zara, Carrefour, Marks & Spencer… vi hanno delocalizzato la loro produzione od operano tramite intermediari. Caratterizzato da un investimento minimo e una massiccia manodopera, il settore tessile è uno dei pilastri economici dell’Asia sud-orientale.(…) La crisi economica ha colpito in pieno molti paesi esportatori di tessili destinati alla confezione, ma il Bangladesh se l’è cavata alla grande. Zillul Hye Razi, consigliere commerciale della Delegazione dell’Unione europea nel Bangladesh, spiega che «molte imprese hanno reagito decidendo di insediarsi nel paese dove la manodopera è tra le meno care del pianeta». (…) Gli operai e le operaie nel settore tessile – quasi il 40% della manodopera industriale – si ribellano spesso, amareggiati dalla differenza tra i loro stipendi e i guadagni intascati dai fabbricanti ed esportati sotto l’egida del Bgmea, l’Associazione dei produttori ed esportatori di vestiti del Bangladesh.Dall’inizio delle proteste, per compensare l’inflazione che ha colpito i beni di prima necessità, i lavoratori chiedono un aumento del salario fino a 5.000 takas (51 euro) al mese contro i 1.663 takas (17 euro) attualmente pagati. A titolo di paragone, in Vietnam, gli operai guadagnano 75 euro e, in India, 112 euro. (…)Gli orari raggiungono le 80 ore settimanali, mentre la legge ne prevede 48 con un giorno di riposo. Quando occorre far fronte all’urgenza delle ordinazioni delle grandi marche straniere, i lavoratori devono restare chini sulle macchine fino a 17 o 19 ore di seguito: questo tempo supplementare, troppo spesso non retribuito, è raramente frutto di una libera scelta.(…) C’è poi l’incredibile rompicapo della cascata di subappalti, che confonde i passaggi tra appaltatore e operai, a scapito dell’applicazione dei codici di comportamento. La sicurezza degli operai è il primo valore a soffrirne. Ogni anno numerosi stabilimenti sono preda delle fiamme, con drammi negli edifici sovrappopolati e lasciati in cattivo stato. Il recente incendio, il 14 dicembre 2010, in una fabbrica della periferia di Dacca di proprietà del gruppo Hameen, che subappalta in particolare per Carrefour e H&M, ha causato ventotto morti. (…)Rubayet Jesmin, degli affari economici della Commissione europea a Dacca, non ha peli sulla lingua: «Tutto deriva dalla responsabilità dei proprietari di stabilimenti, dei compratori e, per finire, dei consumatori. Quando questi ultimi comprano una maglietta che costa 6 euro, gli deve venire il dubbio che è stata fabbricata da persone che lavorano in cattive condizioni!»